Drumset Mag n° 26 - Luglio/Agosto 2014

Alessio Riccio - Ai Confini Della Batteria

 

di Mario A. Riggio

 

    Alessio è un musicista molto più conosciuto all’estero che in Italia. La sua capacità di esplorare i confini della batteria e, oggi, della musica avant-garde, lo ha portato a confrontarsi con i migliori innovatori e sperimentatori del pianeta, un nome fra tutti: Steve Lacy, riservandogli uno spazio ben determinato nel panorama internazionale.

    In passato si è concentrato sulla tecnica dello strumento, con molti riconoscimenti internazionali, titoli e recensioni sulle principali testate specializzate (una fra tutte la statunitense Modern Drummer - vedi qui e qui). E’ stato un innovatore dello strumento, aprendolo a nuove sonorità sia timbriche che ritmiche, arrivando a essere compreso in quella ristrettissima cerchia di batteristi, come Terry Bozzio, che lavorano per espandere l’universo conosciuto. Un vero e proprio astronauta della batteria, capace di trovare ritmi, gruppi di figurazioni e di suoni assolutamente originali, generati da una tecnica strumentale elevatissima e da una mente aperta e curiosa.

    Oggi questo vestito gli va stretto. Alessio ha allargato alla composizione la sua voglia di scoprire realizzando il cd NINSHUBAR - From The Above To The Below (recensito sul n° 17 di Drumset Mag - vedi qui). Nel nuovo album taglia frammenti musicali e li usa come tasselli di un mosaico, manipolando i suoni fino a raggiungere il risultato desiderato. Brevi tracce di poliritmie, fill pluricomposti, ritmiche ibride di batterie che vengono suonate o campionate, riassemblate, mescolate con altri timbri, simbolo di una materia sonora in continua trasformazione. Con pazienza certosina, Alessio ha composto un lavoro minuzioso, che necessita di un ascolto e un esame approfonditi. Siamo andati a trovarlo nel suo studio di Firenze, per seguirlo poi nella casa dove custodisce gelosamente le sue batterie e tutti i dischi, i video e i libri con cui alimenta la sua avida sete di sapere.


    D - NINSHUBAR è un mosaico di suoni, complesso nella costruzione e nell’organizzazione ma organico nel risultato. Come sei arrivato a dargli la forma che ascoltiamo su disco?

    R - Ho lavorato utilizzando materiali sonori di svariato tipo: sia suoni che avevo nel mio database, frutto di registrazioni effettuate da me e di campionamenti effettuati negli anni, che cose registrate ex-novo, apposta per il progetto. Batteristicamente parlando, ho utilizzato molte percussioni (suonate e campionate) e batterie di ogni sorta (dalla mia The Metalanguage Unit, a set più normali - oltre ovviamente a numerosi sample), scomponendo e ricomponendo il linguaggio ritmico, attraverso cellule sonore minimali che ho ricostruito in frasi e groove che mi piace definire ibridati. Questa modalità di timekeeping, appunto, ibrida, rifiuta a priori la modalità puramente metronomica, interrompendosi, sovrapponendosi, frastagliandosi di continuo, ispirazioni a diverse fonti: le prime che mi saltano in mente sono Steve Reich e il suo phasing e Frank Zappa con la xenocronia. Più semplicemente: avevo un suono e un’idea di ritmo e di struttura che mi risuonava nella testa e ho lavorato per dare loro una forma concreta.

    D - Come hai realizzato le batterie contenute nel disco?

    R - In prima battuta le ho registrate in analogico, perché trovo il suono più caldo e potente. Poi ho passato tutto in digitale, dimensione che consente una maggior fluidità nella manipolazione e nella forgia del suono. Ho realizzato tutto fra il mio studio, in cui ho le batterie e le attrezzature per registrare ad altro livello, e la mia abitazione, dove effettuo il lavoro di editing creativo e, appunto, di ibridazione.

    D - Nonostante un ascolto approfondito, le batterie acustiche non sono distinguibili da quelle costruite con i sample. Come sei riuscito a ottenere questo effetto?

    R - Da un punto di vista del concetto, della direzione musicale e, perché no, dell’approccio “militante” - di colui cioè che lavora a una musica che sia espressione di un’attualità non necessariamente passante per il mainstream - mi interessava abbandonare le sovrastrutture che influenzano pesantemente l’idea che abbiamo del ruolo del batterista, dell’idea del ritmo, dell’organizzazione delle strutture formali. Ho impiegato molto tempo e molto lavoro ma alla fine l’effetto musicale mi soddisfa. Si tratta di un’interminabile procedura di riorganizzazione dei materiali sonori tesa all'ottenimento di un suono d’insieme davvero organico, in cui i flussi ritmico-sonori “respirino” assieme, mutino di direzione in maniera improvvisa, scartino compatti senza preavviso da una coordinata all’altra, scardinino violentemente l’idea di un groove e di una percezione ritmica lineari.

    D - La tua affermazione è volutamente esagerata, anche perché il tuo disco ha groove, pur non utilizzando ritmiche tradizionali.

    R - Sai bene che quella del groove è una questione un po’ delicata: sembra quasi che se a noi occidentali ci toccano il groove o il backbeat debbia scoppiare una sommossa. Ci sono culture (penso a quella africana o quella indiana) in cui si danza su strutture molto raffinate, in cui la complessità dei ritmi eseguiti non compromette il modo con cui chi ascolta percepisce la pulsazione. Il mio desiderio era di proporre un’idea di ritmo, appunto, ibridata, che avesse luogo su più piani sonori e percettivi: l’interazione fra strumenti acustici e suoni elettronici - che fossero sample o suoni di sintesi, la contaminazione della pulsazione o del groove con inserti che ne compromettessero la linearità, che allargassero o restringessero gli intervalli attraverso cui il ritmo si ripete. Mi interessava davvero confrontarmi con una materia ritmica inedita e personale, fruendo la quale l'ascoltatore non ha mai la possibilità di "abituarsi", poiché la pulsazione muta incessantemente. Se poi il processo fattivo è stato davvero articolato l'obbiettivo era in realtà molto chiaro: una concezione ritmico-formale priva di quelle gerarchie che abitualmente influenzano la nostra percezione.

    D - Molti dei tuoi lavori precedenti si fondavano sull’improvvisazione. NINSHUBAR sembra procedere nella direzione contraria: è studiato fino al più piccolo dettaglio. Come ci spieghi questo tuo cambiamento di procedure espressive?

    R - In tutta sincerità la musica improvvisata non mi attrae più come una volta: è stata una musica incredibilmente importante per me, sotto molti punti di vista, e per questo ne ho ascoltata tantissima e altrettanta ne ho fatta - per non parlare dei libri che mi sono letto al riguardo, e sebbene l’atto di improvvisare liberamente rimane qualcosa di davvero magico, non credo che metta al riparo il performer dall'uso di determinati cliché espressivi o tecnici. Molta della musica che ascolto adesso è fondata su un vitale connubio tra improvvisazione e determinazione, modalità questa che mi sembra efficace e attuale. In Ninshubar, che dovrebbe essere il primo lavoro di un trittico, volevo lavorare sull’iperdeterminazione dei materiali, delle strutture, della forma e delle matrici ritmiche che ne costituiscono le fondamenta. Per questo ogni cellula è pensata, processata, ricostruita o ricontestualizzata. Ovviamente ci sono abbondanti sacche di improvvisazione, sia per alcune sezioni batteristiche che per la chitarra di Hasse Poulsen, oltre che per le voci di Monica Demuru (che si è occupata anche del materiale tematico) e Catherine Jauniaux (che invece ha lavorato più su timbri e colori). Mi sembra piuttosto evidente, poi, che si tratti di un percorso che si colloca a metà strada fra il jazz, o meglio: il modo con cui i musicisti improvvisano oggi, e la musica elettronica.

    D - Già, il jazz. Hai una grande conoscenza della tradizione e del linguaggio jazz, ma sembra che nei tuoi ultimi lavori tu tenda ad allontanarti da questo.

    R - Se si ascolta molto del jazz di oggi, di coloro che ne sono i protagonisti su scala mondiale, si potrà tranquillamente prendere coscienza che gran parte dell’idioma jazzistico tradizionale non c’è quasi più: sono cambiate forme, strutture melodico-armoniche, modalità interattive, per non parlare poi del ritmo. Ci sono musicisti-compositori (penso a Steve Lehman, a Tim Berne, a Dan Weiss, a Vijay Iyer - solo per citarne alcuni) nella cui musica si sente più il Novecento che il jazz, o quantomeno due tendenze che si eguagliano: musica, quindi, in cui all’improvvisazione si ritagliano spazi sempre più specifici e definiti, spesso in strutture composite e non così affini alle forme jazzistiche tradizionali.

    D - La tua musica sembra aver preso questa direzione…

    R - Beh, di sicuro sono musicisti che hanno una grande influenza sul mio modo di concepire la musica. Amo molto però anche la musica elettronica ed elettroacustica…

    D - Infatti, nel tuo ultimo lavoro, il dualismo fra acustica ed elettronica appare evidente.

    R - Credo che al giorno d’oggi l’interazione fra le due dimensioni sia sempre più comune, direi quasi una prassi obbligatoria vista anche il quotidiano utilizzo di device elettronici di ogni tipo che ognuno di noi fa. Anche nella musica questo equilibrio mi sembra diventato molto naturale, al punto che perdere tempo a fare differenze fra musica suonata dal vivo o musica suonata anche grazie all’elettronica - che si tratti di laptop, di loop station o di quant’altro, mi sembra davvero una cosa priva di senso. Penso che sia piuttosto evidente quando l’elettronica e la tecnologia in generale svolgono un ruolo creativo e quando invece servono soltanto a correggere errori o magagne varie. Se vogliamo scendere nei particolari definirei il mio lavoro più elettroacustico che elettronico, con una tendenza verso l’acustico piuttosto che verso il live electronic, e questo spicca anche nel modo in cui concepisco la forma delle mie composizioni, che segue una metodologia tipica della musica acustica. Dal punto di vista batteristico e percussionistico suono praticamente soltanto strumenti acustici, utilizzando pochissimo midi o multipad. Mi piace moltissimo invece campionare i suoni per poi poterli alterare o ricomporre a mio piacimento. Di sicuro mi sento soddisfatto quando alla fine di una fase compositiva ho costruito una scenario sonico in cui non si è in grado di discernere gli strumenti acustici da quelli elettronici o dai samples, o comunque gli strumenti che sono stati suonati dal vivo da quelli invece frutto del lavoro di creative editing.

    D - Hai curato molto le voci, ospitando nel tuo cd due cantanti…

    R- Adoro la voce, ho sempre avuto una speciale predilezione per la musica vocale e per la performance in genere. Molti dei miei idoli sono cantanti, anzi “cantantesse”: penso a Diamanda Galàs o a Kate Bush. Da anni poi volevo lavorare con Monica Demuru, che avevo ascoltato nei lavori del collettivo Timet di Lorenzo Brusci. Per Ninshubar abbiamo fatto una gran selezione di testi, che considero un punto fondante della mia musica, e devo dire che Monica è stata bravissima anche in questo. A livello di costruzione ed elaborazione degli scenari sonici il grosso del lavoro l’ho poi fatto a esecuzioni avvenute, ricostruendo letteralmente le strutture musicali intorno alle voci, incluso quella di Catherine Jauniax che ha svolto un ruolo più timbrico: una splendida palette di colori davvero ideali per i mosaici ritmico-sonori che avevo in mente.

    D - Hai manipolato parecchio le performance dei tuoi collaboratori? Sono rimasti contenti del risultato finale?

    R - Credo di si, almeno così mi hanno detto! Ovviamente erano stati informati sul tipo di lavoro che avrei fatto e in ogni caso si tratta di performer abituati a suonare musica diciamo “particolare”. In ogni caso penso che si, siano rimasti soddisfatti: nel prossimo cd Monica ci sarà ancora, in un organico formato da un’altra voce, questa volta maschile, flauto, sax e clarinetto.

    D - Per il cd hai scelto uno strano titolo. Da cosa deriva?

    R - Ninshubar era una divinità sumera. Suonava il tamburo a cornice mentre accompagnava le anima dalla vita alla morte, dall’above al below. L’ho scoperta grazie a un magnifico libro libro della percussionista Layne Redmond, una delle collaboratrici di lungo corso di Glen Velez: When The Drummers Were Women è il titolo. E’ bellissimo e lo consiglio a tutti, percussionisti in particolare!

    D - Porterai dal vivo questa tua opera?

    R - Mi piacerebbe molto, ma non è facilissimo. Vorrei associare alla musica una video performance, magari preparata ad hoc. Temo però che vili questioni di budget si riveleranno uno scoglio insormontabile.

    D - Ultimamente fai attività concertistica?

    R - Batteristicamente no. Mi sono dedicato, invece, alla musica per teatro che ho scoperto con piacere essere abbastanza nelle mie corde. In questi anni ho lavorato molto adattando musica che già avevo alle richieste che mi arrivavano. E' un percorso molto interessante, che mi costringe a sottrarre, a ridurre all'essenza molta della musica che ho elaborato.

    D - La tua musica si rivolge a un pubblico particolare?

    R - Inevitabilmente sì. Da molti anni ho sentito di dovermi concentrare principalmente sulla mia musica, in cui cerco di convogliare tutte le istanze creative che sento più urgenti: l’innovazione, l’idea di una musica immersiva e immaginifica che passi attraverso i sensi, che sia potente e pregna di anima. Non sempre ci riesco ma il solo tentarci è una sfida che mi appassiona e che vale la pena di essere vissuta. Ovviamente procedere in una direzione musicale piuttosto specifica tende a limitare l'accettazione e la fruizione, il pubblico sarà formato da persone decisamente motivate, ma penso che questo sia piuttosto normale e quindi non me ne preoccupo più di tanto.

    D - Nonostante la tua musica abbia imboccato percorsi piuttosto eterodossi, il fondamento dei tuoi studi è la batteria. Continui a studiarla con la stessa intensità di una volta?

    R - Assolutamente si, sia perché ci sono tantissime cose che voglio scoprire ancora sia perché suonare il mio strumento mi piace da morire. Amo la musica per davvero, per cui passare il tempo a studiarla è qualcosa di estremamente naturale. Da molto tempo ho impostato il mio percorso batteristico su criteri che definirei metastilistici, senza concentrarmi su uno o più generi specifici ma cercando di elaborare un approccio personale al drumming. In passato ho davvero ascoltato e studiato di tutto, dal Rock al Jazz, dalla musica classica a quella etnica, i vari sottogeneri e le inevitabili contaminazioni, ma alla fine credo davvero che non si possa suonare bene tutto. E' una questione di approfondimento, di verticalità, di regalarsi il tempo per andare fino in fondo in una direzione specifica. Studiare di tutto è estremamente appassionante e magari ci si avvicina anche a essere un batterista davvero versatile; credo però che per sviluppare qualcosa di veramente personale si debbano fare delle scelte, e che queste siano fondamentalmente istintuali, figlie di come siamo e di cosa ci appassiona per davvero.            

    D - Che strumento usi attualmente?

    R - Ovviamente la mia scultura sonora, The Metalanguage Unit, da poco evolutasi dell’ennesimo step. I tamburi che la costituiscono sono Sonor SQ2 mentre i piatti e le percussioni metalliche che ne fanno parte sono realizzati da Ufip, Hammerax e Steve Hubback.

    D - Tornerai a creare progetti che mettono al centro la batteria?

    R - Certo. Fra i miei prossimi progetti ce n’è proprio uno drums oriented...