JAZZIT - MAGGIO/LUGLIO 2001

ALESSIO RICCIO

COERENZA, RICERCA, MULTIFORMITA’, EVOLUZIONE

 

di Luigi Radassao

    Studia, ricerca, prepara, progetta, compone, esegue, registra, controlla, edita: Alessio Riccio può vantare collaborazioni prestigiose (Claude Barthélémy, Stefano Battaglia, Steve Coleman, Tim Berne, Carla Bley, Steve Lacy, Ernst Reijseger, Dominique Pifarély, Michel Godard e altri), ma soprattutto una personalissima idea riguardo al fare musicale. E’ il suo un approccio poetico alla musica ma allo stesso tempo teorico ed anche tecnico, connotato da un’ideale propensione al totale controllo del manufatto artistico. E’ sufficiente osservare la sua presa di contatto con le percussioni per vedere emergere lampante lo sforzo di coniugare due istanze, quasi contrapposte, che percorrono la storia non solo della batteria, ma del jazz e, in generale, della musica tutta. Da un lato la libertà espressiva, l’esternazione che si vuole spontanea, in-mediata; dall’altro l’organizzazione formale, adottata per scelta o in-posizione. Pulsa, nel drumming di Riccio, un rigore estremo - per l’uso che viene fatto di computer, loop, drum machine, drum programming e sequencer - che dona forma e un’inesauribile ricerca poliritmica, polifonica e politimbrica. Ma pure una libertà formale e sintattica altrettanto estrema che si inserisce tuttavia in un disegno complessivo rigoroso. Un po’ una geometrica quadratura del cerchio: la matematica che vorrebbe imbrigliare, scandire, misurare ciò che è ciclico, insolubile per sua stessa natura, e, di contro, la circonferenza che si ribella alla razionalità ingegneristica attraverso il suo incommensurabile, inesauribile “pi-greco”. Incontro Alessio Riccio nel suo studio di Firenze, circondato da una panoplia di tamburi e da macchine di ogni sorta, quasi una rappresentazione simbolica dell’eterogeneità che lo anima.


    D - La tua attività musicale ti vede all’opera in ambiti molteplici, impegnandoti non soltanto come batterista. Attualmente quali sono i progetti che ti coinvolgono maggiormente?

    R - Senza dubbio negli ultimi due anni la maggior parte delle mie energie è stata assorbita dalla nascita della mia etichetta discografica Unorthodox Recordings, poiché all’atto musicale creativo sentivo il desiderio di fare corrispondere quello organizzativo e strutturale, nonché la progressiva acquisizione dell’indispensabile know how necessario al procedere. E’ un progetto dedicato completamente alla mia musica, la cui realizzazione mi riempie di soddisfazione perché arricchisce la mia esperienza di musicista proiettandola verso una dimensione che sento più completa e matura (oltre a essere la concretizzazione di un piccolo sogno…). E’ già uscito il mio primo video e diversi dischi sono in lista di attesa per essere pubblicati. Sotto un profilo strettamente musicale, poi, vorrei citare le collaborazioni con due artisti l’incontro con i quali si è rivelato estremamente importante: Claude Barthélémy e Stefano Battaglia.

    D - Anche la tua formazione è ricca di esperienza assolutamente eterogenee, che spaziano dall’heavy metal al jazz, dall’avanguardia alla libera improvvisazione, sino alla musica colta. in che modo ti piace inserire la tua personalità musicale in situazioni così differenti?

    R - Credo che dipenda dal tipo di evoluzione musicale che ho avuto. Come musicista sono nato con l’heavy metal e, beninteso, non me ne vergogno affatto. Ne conservo un ricordo affascinante, anche perché è stato il mio trampolino verso la presa di coscienza dell’enorme importanza che ricopriva la musica nella mia vita: da essa, grazie soprattutto agli intensi studi compiuti, mi sono avvicinato al jazz (attraverso il jazz-rock), alla musica contemporanea di stampo colto (passando per la musica classica) ed alla musica d’avanguardia, calderone che riunisce, più o meno appropriatamente, tante forme di espressione spontanea che, personalmente, preferisco definire con il termine di musica creativa, appellativo che, se non altro, sento vicino alla mia filosofia musicale di questo periodo, essendo piuttosto vago e prestandosi quindi a interpretazioni più libere e trasversali.

   D - Trovi un filo conduttore che accomuna queste tue differenti esperienze, oppure ognuna di esse esprime un aspetto diverso di te stesso, un periodo, come lo chiami tu, a sé stante?

    R - Penso che qualche anno fa il filo conduttore tendesse più verso l’aspetto del puro apprendimento, che scaturiva dalla passione sincera e dalla voglia di conoscere le mille sfaccettature della musica, esplorandone le diversità che intercorrono tra uno stile e l’altro e crescendo attraverso di esse. Oggi trovo che ciò che meglio esprime i differenti aspetti della mia personalità musicale siano i legami che sussistono tra i diversi ruoli che mi trovo a vivere da un progetto all’altro, in base a ciò che la musica richiede: improvvisatore, interprete, esecutore, compositore, arrangiatore, e perché no, produttore e/o editore. Per non parlare poi dei diversi contesti nei quali mi muovo e delle stesse differenze di organico, che influenzano in maniera determinate l’approccio che un batterista deve avere per non conferire un’aura di immaturità a ciò che suona.

    D - La tua ricerca, osservata da vicino, dà ‘idea di uno sforzo di organizzazione matematica, ma se ci si abbandona all’ascolto si viene colpiti da una risonanza diversa…

    R - E’ proprio questo il punto… E la sorgente di tale risonanza è situata nell’istante stesso il cui l’acusticità tipica della percussione incontra il media elettronico e il suo universo solo apparentemente sintetico: da quel momento si entra in una dimensione che sento molto vicina, in quanto il linguaggio è espressione di differenti punti di partenza. La ritualità associata all’atto del percuotere si contamina con l’artificiosità insita nella processione elettronica del suono e della sua diffusione: una sorta di “incontro-scontro” tra ciò che è legato a magia, mistero, ritualità ed il pragmatismo di scienza e tecnologia, espressioni, invece, della nostra cultura e dei nostri tempi. Riguardo alla ciclicità, i flussi continui sono indissolubilmente associati all’utilizzo dei loop ed alla griglia ritmica e coloristica che da essi scaturisce, e che vuole essere il mezzo per la fusione tra il flusso ritmico continuo di sapore minimalista e la trance metafisica: il punto di riferimento per l’evoluzione del concetto di timekeeping. Io li chiamo Ritmi Cubisti per la loro caratteristica di poter essere ascoltati e interpretati secondo le più diverse angolazioni dato che non possiedono una direzionalità fissa: prendono forma su metriche molto lunghe e si fondano in prevalenza sull’effetto auto-ipnotico e dilazionante della ripetizione. E, come nella pittura, si sviluppa una relazione continua tra linea principale e linee secondarie che si distribuiscono tra tempo e spazio, solo che in questo caso parliamo di porzioni di ritmo musicale. L’obbiettivo è quello di offrire all’orecchio una fluttuante molteplicità di aspetti. Vi si può suonare dentro e fuori, a favore o contro, il fraseggio non risente più di limitazioni stilistiche, il tempo respira, è rotondo, assolutamente lontano dalla tipica stasi ritmica occidentale, che spesso imprigiona il batterista in pattern preconfezionati. E’ una ricerca esaltante perché conduce alla libertà linguistica assoluta: libertà di rispondere alle sollecitazioni melodiche e coloristiche della composizione estemporanea, libertà di immergersi in metriche molto complesse, non risentendo dell’inevitabile tentacolarità delle stesse e libertà di fondere il tutto senza distruggere la sensazione dello scorrimento del flusso temporale, esaltandone, anzi, proprio la ciclicità, in quanto ci si muove secondo criteri di assoluta libertà istintiva. Il vocabolario musicale del batterista si allarga a dismisura proprio perché non distribuiamo più i colpi secondo schemi matematici precostituti, che si suoni, “a tempo” oppure no. E’ allora che il ritmo respira.

    D - L’enorme strumento che suoni è un eterogeneo assembramento di elettronica, tamburi, percussioni, metallofoni e piatti che sembra fatto apposta per non dare adito a questi pattern preconfezionati. Ci puoi raccontare come è nata l’idea e come si è svolto poi il lavoro di realizzazione della tua The Metalanguage Unit, un progetto che ricorda la costruzione di oggetti musicali di alcuni musicisti del Novecento (penso a Scriabin, Russolo, Partch…)? Il fatto di essere “obbligato” a fabbricare i tuoi utensili ti ha permesso di trovare delle cose che non avresti cercato altrimenti?

    R - The Metalanguage Unit è una visione che non nasce a tavolino, ma scaturisce spontaneamente dalla mia natura di uomo e musicista. E’ allo stesso tempo creazione e veicolo, punto di arrivo e (ri)partenza, espressione di purezza e rigore artistico, tutti fattori, per me, estremamente importanti in musica. La sua costruzione mi ha preso tempo ed energia, è stata graduale e mi ha portato a rivedere completamente gli equilibri batteristici che avevo assimilato. Ed è proprio attraverso questo processo di manifestazione, reazione e riscoperta che credo di aver (ri)trovato la mia essenza di musicista. Perché suonare tutti con gli stessi strumenti, con le stesse configurazioni, con gli stessi tamburi, piatti e con gli stessi atteggiamenti nei confronti dello strumento? Non ha nessun senso. TMU è a cavallo tra ciò che è profondamente mio e ciò che è insito nell’atto del percuotere. Io stesso mi sono divertito a cercare di capire quali fossero le più o meno consapevoli citazioni presenti in essa, anche se è un processo che è stato possibile solo a posteriori: ho ritrovato Cage ed il suo concetto di preparazione degli strumenti, la vibrazione della percussione africana, l'esplosività dei Kodo e chissà quant’altro.

    D - Il tuo è un lavoro in gran parte incentrato sulle (s)composizioni ritmiche e gli schemi delle polimetrie. Usi l’elettronica per creare una forma in cui muoverti o dalla quale partire per poi improvvisare: la macchina per te è un vero e proprio partner? Oppure potrebbe anche trasformarsi in un avversario?

    R - L’elettronica è parte integrante di The Metalanguage Unit, ne è allo stesso tempo parte costituente e causa scatenante. Più che un partner è una vera e propria sezione della scultura sonora stessa, anche se non fisicamente tangibile. Ed è proprio questa intangibilità che ne fa elemento chiave del mio linguaggio: la sua manipolabilità è pressoché infinita, permettendomi diverse direzioni espressive. Che utilizzi i loop, i campionamenti in diretta o i ribattimenti di durata variabile, la fusione tra acustico ed elettronico avviene portando in sé la predeterminazione legata alla riproduzione di una precisa idea musicale e la naturale spontaneità della composizione estemporanea. Dunque, per me, l’unica difficoltà nella gestione dell’elettronica era legata perlopiù ad alcuni aspetti pratici della sua messa in opera. Essa ha sempre fatto parte della mia strumentazione: la concezione sonora che ricercavo, infatti, non avrebbe potuto avere luogo solo attraverso la dimensione puramente acustica della batteria e ciò creava in me l’enorme desiderio di trovare la chiave per accedere a questi suoni per dar loro forma tangibile.

    D - Ed in che cosa si differenzia l’interazione con gli improvvisatori con cui suoni da quella con le macchine, con le quali pure suoni? Sono in fondo anche queste chiavi per accedere e dare forma tangibile a forme e progetti musicali?

    R - La differenza fondamentale risiede nel fatto che associo l’interazione con la macchina quasi completamente rivolta alla solo performance, dimensione della quale mi ha sempre attratto la possibilità di esprimere ciò che, in condizioni “normali”, per un batterista non è musicalmente possibile. Suonare con gli improvvisatori investe più la sfera del contatto, del connubio, è espressione di estroversione, incarnazione della volontà di crescita e comunicazione. E’ questione di condivisione ed intimità. In ogni caso si tratta di due modi di fare musica che amo molto: sentire la musica che nasce, cresce, si sviluppa e muore è una sensazione fantastica che ti fa sentire parte integrante di qualcosa di estremamente grande, “servitore” di una forza che esiste, ci circonda e che sfugge alla dimensione terrena.

    D - Suoni spesso anche alcune sculture sonore, opere di Andrea Dami, un artista di Pistoia. Qual’è il tuo approccio verso uno strumento così eterodosso?

    R - La mia passione verso le sculture sonore nasce proprio dal fatto che non esiste un linguaggio specifico per fare musica con esse, nel senso che non si può certo suonarle partendo da esercizi che si è studiato a casa… Sono opere che obbligano chi le suona a pensare più da compositore che da percussionista: non esistono regole, la musica è l’unico giudice e ciò costringe ad una maturazione continua. Ho scoperto le sculture Dami grazie alla Ufip: Luigi Tronci me le mostrò con un entusiasmo così coinvolgente che non poteva non contagiarmi. Le ho suonate su disco, su video, in concerto e spero di continuare a farlo perché è un’esperienza che mi gratifica molto, in quanto estremamente trasversale, prescindendo da stili, tecniche e linguaggi troppo definiti e spesso limitanti. Vorrei citare anche le opere di Armando Marrocco, Jaume Plensa e Diego Esposito, che ho avuto più volte il piacere di suonare e che consiglio vivamente a tutti di vedere e ascoltare.

    D - Un altro oggetto sonoro, questa volta “costruito” dal percussionista bergamasco Vittorio Panza, ma di cui tu fai parte integrante, è il gruppo di percussioni denominato Dadadang, una vera macchina ritmica, che a volte può ricordare essa stessa una scultura. Un’altra esperienza, l’ennesima, che ti impegna in un ambito ancora una volta differente, quello del teatro di strada. Anche qui, mi pare, siamo fuori da schemi pattern, quanto meno nella loro organizzazione e realizzazione complessiva.

    R - E’ un’esperienza che mi da molto poiché basata sul gesto e sulle sue enormi potenzialità musicali ed espressive. Dato che, in un certo qual modo, è presente una porzione di recitazione, mi obbliga alla consapevolezza della totalità del mio corpo: il gesto, in questo caso, non è più soltanto preludio alla musica, ma anche espressione di un’emozione visiva, condivisa con lo spettatore. Per me il gesto è tutto. Non credo nel concetto, sostenuto da Peter Erskine, di wasted motion, di movimento inutile: ogni gesto, ampio o economizzato, giusto o (presumibilmente) sbagliato, dà vita a un suono, unico e irripetibile; sta soltanto a noi e alla nostra maturità di artisti il gestirlo, dandogli forma soltanto nel momento in cui sarà assolutamente indispensabile. L’esperienza con Dadadang arricchisce questa consapevolezza ritmico-espressiva del movimento e aiuta le riflessioni che mi pongo di fronte alla mia scultura sonora e alle problematiche ergonomiche che, inevitabilmente, nascono nel momento di trasporre il gesto in musica.

    D - I tuoi progetti per il futuro, prossimo e venturo?

    R - Concerti con Claude Barthélémy, Dadadang, Homage To A Dream e registrazioni con Stefano Battaglia. Completerò poi le mie realizzazioni discografiche e i miei video e spero di riunire in un libro alcuni scritti cui sto attualmente lavorando. Ciò che per me rimane l’obbiettivo primario è la crescita artistica che ha luogo attraverso la messa in opera di tutti questi progetti che, ancora una volta, considero veicoli piuttosto che punti di arrivo: l’approfondimento, la riflessione, la cura del dettaglio e la riunione del tutto in una visione olistica della musica, senza separarla da tutti gli altri campi del vivere. E soprattutto far sì che essa sia, sempre e assolutamente, espressione della mia natura originale, vera e propria chiave verso l’evoluzione.