SOLAR IPSE #07 2014

ALESSIO RICCIO - UNA SCINTILLA PUO’ BRUCIARE UN IMPERO?

 

di Loris Zecchin

       

 

 

All’approccio fisico, diretto, impossibile da togliersi come una pelle che indossi dalla nascita, il pestatamburi e manipolatore elettronico Alessio Riccio sovrappone un tipo di ricerca che dispone tutti gli elementi e le problematicità necessarie per liberare nuove prospettive. L’abbiamo intervistato nel tentativo o di capire quali essenze nutritive sI irradino dal suo nuovo, bellissimo NINSHUBAR - From The Above To The Below (Unorthodox Recordings), realizzato con la partecipazione di Hasse Poulsen (chitarra), Monica Demuru (voce), Catherine Jauniaux (voce).


    D - Non credo che un artista possa decidere di essere originale e lavorare per esserlo. Si può solo pensare a crescere accumulando esperienze che aiuteranno a scovare nuovi modi per far funzionare insieme cose diverse. Il perché di questa intervista nasce innanzitutto dalla mia curiosità di sapere quali strade ti hanno portato fin qui oggi…

    R - Il lavoro che è stato alla base di NINSHUBAR e degli altri due cd che seguiranno ha proceduto verso una direzione piuttosto precisa: la volontà di rileggere alcuni degli elementi base della musica, nella fattispecie il ritmo, la struttura formale e quello che definirei il colore complessivo della musica stessa. Da batterista non potevo che partire da un ritmicità ibridata, dettagliatamente frastagliata, molteplice e problematizzata, per poi ricostruire (letteralmente!) il periodo musicale, ambendo a creare un soundscape assolutamente organico in cui ogni elemento fosse funzionale al tutto. E' ovvio che in questo percorso sono stati molti gli elementi che sono arrivati a convergere: ascolti, influenze (spesso metamusicali), desideri e utopie, anche se ho davvero cercato di creare un universo sonoro elettroacustico che fosse davvero mio, nel bene e nel male.

    D - …Ma a parenti e amici che chiedono quale tipo di musica tu stia suonando, cosa rispondi?

    R - Non scendo troppo nel dettaglio. Parlo di "musica elettro-acustica, un po' jazz e un po' no". Invito sempre a un ascolto senza pregiudizi, dato che credo che anche la musica formalmente e linguisticamente più complessa possa essere fruita in maniera istintiva, senza il bisogno di troppe spiegazioni. Con coloro che sono più abituati ad ascoltare musica mi limito a dire che trattasi di un elettronica più di matrice cosiddetta "colta" piuttosto che di estrazione "dance". In ogni caso amo l'idea di una musica metastilistica e metalinguistica e cerco quindi di invitare ad un ascolto scevro di sovrastrutture, per quanto esso possa essere esperienza non sempre facile.

    D - Si parla sempre della necessità di essere liberi in musica… ma quando secondo te questa libertà conduce nel cul de sac dell’autocompiacimento? Potresti farmi qualche esempio concreto?

    R - Mah, se devo essere sincero l'autocompiacimento lo vedo molto più nel mondo del pop che in chi fa cose come le mie. Personalmente non vedo niente di sbagliato nel tentare di estendere i confini della musica, al limite anche soltanto i propri. Magari poi non ci si riesce ma credo fermamente che anche soltanto il provarci costituisca un essenziale contrappeso allo strapotere della cultura mainstream che, specie nella musica, ha l'effetto di massificare e annacquare qualsiasi cosa. A livello di stasi linguistica qualche problemino ce lo può avere la musica contemporanea di matrice colta o accademica, ma penso più per ragioni legate al rapporto fra il segno e il suono che ad altri fattori. Non è un mistero infatti che il jazz più attuale abbia scavalcato i compositori accademici proprio sul loro territorio, grazie a una maggiore capacità di cogliere le istanze di oggi e metterle in atto, per non parlare poi di chi fa elettronica "alternativa", che sperimenta decisamente di più e decisamente meglio di chi la pratica nei conservatori.

    D - Si sono fatti passi da gigante nell’integrazione della tecnologia all’interno degli standard produttivi di molti generi musicali. Tutto questo per dire che, nonostante continuino ad esistere ascoltatori convinti che la musica autentica sia solo quella eseguita con strumenti tradizionali (sarà stato questo il motivo del grande successo degli MTV unplugged?), l’idea che la tecnologia abbia “falsificato” la musica ha perso terreno e sempre più ne perderà…

    R - Personalmente ho un rapporto molto sereno con l'elettronica, sia nella vita che nella musica e nell'arte in genere. Non sono uno di quelli che fa la fila per l'ultimo gadget informatico né un iper-esperto di software applicati alla musica. Semplicemente: l'elettronica mi permette scenari espressivi che mi piacciono, che trovo inediti e stimolanti, che mi danno la sensazione di poter davvero approfondire nonché fissare in maniera più precisa le idee in un formato a suo modo "definitivo", qualsiasi esso sia. Amo moltissimo la musica acustica nelle sue forme più svariate: il caleidoscopio delle percussioni, le esecuzioni in solo, gli strumenti antichi, la musica vocale. Non riesco davvero a pensare a due dimensioni in conflitto, mi sembrerebbe folle. La musica di NINSHUBAR e dei due progetti che dovrebbero seguire non è elettronica ma elettroacustica, sia negli elementi sonori che la costituiscono, sia nelle modalità di assemblaggio di soundscape e ibridazioni ritmiche. Mi è poi ovvio che le forme di "falsificazione" di cui parli prendono corpo nel momento in cui si utilizza l'elettronica per nascondere errori o mascherare deficienze di fondo, non certo per l'elaborazione di sonorità o strategie di organizzazione e architettura sonica...

    D - Raccontaci qualcosa a proposito degli assistenti (chiamarli ospiti credo sia inesatto) del disco: Hasse Poulsen (chitarra), Monica Demuru (voce), Catherine Jauniaux (voce). Dei tre conosco solo Monica per il duo con Calcagnile: i Blastula. Il loro disco su Amirani, “Scarnoduo”, ha stazionato a lungo nel mio cd player…

    R - Sono stato davvero felice di coinvolgere Hasse, Monica e Catherine, il contributo che hanno dato a NINSHUBAR è stato davvero importante. Per ogni cd che ho fatto ho sempre cercato di contattare performer di grande personalità che mi sembrassero adatti alla direzione musicale che perseguivo, lasciandoli ovviamente liberi di parlare la loro lingua, di procedere secondo le loro coordinate estetiche. Hasse ha fatto un lavoro stupendo, a trecentosessanta gradi: chitarrismo elettrico, acustico, rumoristico, solista o colorista che fosse, di grande potenza espressiva, che mi ha poi permesso di ristrutturare parte dei soundscape già esistenti. Di Monica posso solo dire che sono un suo fan sfegatato da sempre, da quando l'ho scoperta nei dischi del collettivo denominato Timet, guidato da Lorenzo Brusci. Non ho nessun problema a dire che la considero una delle migliori cantanti europee e averla avuta come collaboratrice mi riempie d'orgoglio: fra l'altro è presente anche in uno dei due progetti che seguiranno NINSHUBAR e anche in quello ha fatto cose davvero speciali. 

    Catherine è stata un po' una rivelazione per me che, ignorantello, non la conoscevo. Su consiglio di Stefano Nuzzo, il proprietario di Twisted, il bellissimo negozio di dischi di Firenze, stavo ascoltando un po' di dischi di cantanti/performer femminili e un cd con Ned Rothenberg, Barre Phillips e appunto Catherine (per la precisione While You Were Out, uscito nel 2009 per Kadima Collective) mi ha rivelato il suo talento multiforme. Cercavo una vocalista che fosse complementare al ruolo che Monica avrebbe dovuto svolgere e la scelta si è rivelata giusta: una vocalità originalissima, fatta di colori e sfumature, convulsa e visionaria, davvero una fortuna averla a disposizione per la propria palette compositivo/assemblativa!

    D - Mi è piaciuto molto, nelle note da te vergate per il libretto del cd, il discorso che riporti di Zorn sul significato della new music di oggi: una parte ‘act of necessity’ e l’altra ‘labour of love’… puoi spiegare ai nostri lettori in cosa consistono esattamente questi due elementi indispensabili alla ‘combustione’?

    R - Vivo una fase della mia vita artistica e personale in cui sento fortissimo il bisogno di, come dire, "fare presente" che anche la musica ritenuta più strana, stramba, cerebrale, complessa o come altro la vogliamo definire nasca da un'esigenza spontanea e vitale, da un desiderio di creazione e costruzione che a mio parere è assolutamente luminoso. E' il labour of love di cui parla Zorn e che io ritrovo anche nella sua musica, persino nei progetti più duri e sperimentali. Non sopporto davvero più l'associazione fra musica di un certo tipo e l'idea di un cammino fatto solo di penitenza e patimento, lo trovo abissalmente banale. Io ascolto Diamanda Galàs e ci sento luce, spunti, opportunità, percorsi e suggerimenti. L'act of necessity, poi, agisce secondo me in maniera biunivoca: c'è la necessità nei confronti di noi stessi, di ciò che percepiamo come autentico e giusto, che ci spinge a creare secondo le nostre coordinate (l'ananke di cui scrivo nel libretto) e la necessità, come ho già scritto, di provare a rivendicare per la musica il ruolo che le spetta piuttosto che l'insipida condizione di veicolo di mero cazzeggio.

    D - Inquadrare e problematizzare lì dove il significato è consensualmente stabilito (avanguardia = solipsismo; popolare = gioia e disimpegno) è però un’impresa che richiede sforzi notevoli. E io ho come l’impressione, nemmeno tanto velata a dirti la verità, che le persone spesso scelgano di proposito di tener chiuse le porte di accesso a una nuova sensibilità perché costa loro fatica. Viviamo in tempi veloci, ipertecnologici, e tutto deve essere svelato/capibile quanto prima… ma forse la radice vera del problema non è nemmeno questa…tu che dici?

    R - Dico che la questione è complessa, anche perché tutte le volte che ci si interroga su questi argomenti si viene fatti passare per dei moralisti che fanno la predica al mondo e lungi davvero da me il voler rientrare in questa categoria. Di sicuro provare ad andare oltre le proposte mainstream, qualunque esse siano, è difficile e faticoso e posso capire che non tutti si senta il bisogno di farlo. E' altrettanto sicuro che sia l'idea di una società "liquida" e iper-veloce che le variegate proposte da fruire all'istante sono vere e proprie truffe, ben architettate, certo, ma pur sempre truffe. Nulla di buono può essere costruito senza tempo, sforzo e dedizione e la principale ragione per cui si propone (impone?) l'ipervelocità non è altro che fare in modo di impedire che si pensi, che ci si concentri, che si sviluppi il nostro potenziale di esseri umani in una direzione ben specifica e ponderata con cura piuttosto che disperderlo in troppe direzioni. Ora, è vero che l'evoluzione del genere umano oggi passa anche attraverso un confronto costruttivo e fertile con la tecnologia e che il cosiddetto multitasking a volte può essere pratica proficua; è anche vero, però, che il mito propinato attraverso il web del fare/scoprire/pensare tutto da soli è pura mistificazione. Concordo con te che la radice del problema non è facile da inquadrare, c'è il rischio che si perda il piacere di parlare di musica, che si finisca a parlare di politica, di lobby della comunicazione o, peggio, a fare analisi sociologiche da quattro soldi. Io credo molto nella capacità del singolo individuo di operare e muoversi per il cambiamento all'interno del proprio tessuto sociale e penso davvero che il grosso del lavoro ognuno di noi lo può fare in questa maniera. D'altronde uno degli slogan più riusciti del movimento anti-globalizzazione recitava think globally, act locally...

    D - Quando sei nel tuo laboratorio/tavolo del chirurgo hai già in testa i suoni che vuoi ottenere, oppure aspetti che sia il suono a “trovarti”?

    R - Direi che avvengono entrambe le cose che descrivi. Per NINSHUBAR e i progetti che dovrebbero seguire e che fanno parte del medesimo ciclo creativo avevo un suono ben preciso nella testa, qualcosa che definirei suono complessivo, e avevo ben chiari anche alcuni parametri espressivi e linguistici che avrebbero dovuto caratterizzare la musica. E' ovvio che nel procedere creativo, fra tentativi, errori e pure casualità, sono entrati a concorrere tanti altri elementi, primi fra tutti i contributi degli altri musicisti. Lo so che forse suona un po' banale e che magari sarebbe più da "compositori" dirti che avevo tutto chiaro in testa fin dall'inizio ma non è così; in realtà, piccole facezie a parte, sapevo dove volevo andare e il grosso del lavoro si è svolto intorno a due procedure principali, ai piloni della mia procedura di sound shaper: il (vero e proprio!) setaccio delle fiumane di spunti che si manifestavano più o meno inconsciamente e uno spasmodico (e a tratti sconfortante...) lavoro sulla forma, particolarmente difficile perché la mia musica non si snoda attorno a un centro stilistico ben preciso o a riferimenti storici ben delineati. 

    D - Mi fa strano sentir parlare di “forma”… credevo intendessi la musica a cui stai lavorando più come un sistema di relazioni, di insiemi.

    R - Sono strutture concettuali ed effettive che convivono: il Soma, la macroforma che contiene il tutto e che per me è uno degli aspetti più importanti, soprattutto per scongiurare l'effetto "improvvisazione" che in questi anni non mi attrae più molto, e tutte le altre modalità di interazione che danno luogo alle cangianti microforme costituenti il tutto. Credo davvero che per musica come la mia una delle sfide più difficili sia proprio la relazione con la forma, la capacità di colui che compone/assembla di contenere il flusso creativo ribelle e violento in una struttura che gli conferisca una certa disciplina, anche se è evidente che non si parla di imbrigliare o di costringere quanto di, permettimi un filo di leggerezza, di "assecondare dall'alto"...

    D - Ora ti verrà da ridere… ma devi sapere che la prima volta che ho fatto girare il tuo cd nello stereo mi è venuto in mente un brano di Aphex Twin, “Come To Daddy”, coverizzato dai Dillinger Escape Plan (con Mike Patton alla voce) in un loro mini-cd. Non c'è alcuna filiazione diretta, lo riconosco, ma rimango oltremodo stupito di quali strani percorsi sia in grado di generare il nostro cervello...

    R - Non rido affatto, anzi: ne sono lusingato. Aphex Twin è geniale, con l'audio e con il video. L'ho ascoltato molto e lo trovo fortissimo, sebbene stilisticamente non sia il mio principale punto di riferimento. Rimane uno dei pochi con davvero una marcia in più. Per quanto riguarda i Dillinger, beh, sono fra i miei gruppi Rock preferiti assieme a Meshuggah e Hella: musica potentissima ma mai rozza, assolutamente originale e ricca di spunti e idee. Pensa che qualche tempo fa avrei voluto contattare Mike Patton per chiedergli di partecipare a un mio progetto discografico ma poi, per ragioni varie, ho lasciato perdere. In ogni caso anch'io mi stupisco costantemente dei rimandi che quello che mi viene da definire l'inconscio aurale mi propone ogni volta, saltando di palo in frasca, costringendomi a riprendere coscienza delle infinite peregrinazioni musicali che ognuno di noi, alla stregua di un viandante la cui meta è chiara solo in parte, vive ogni giorno. E comunque, se dovessi scegliere un solo parametro da eleggere a fondamentale per l'evoluzione di un musicista, non avrei dubbi: l'ascolto a trecentossesanta gradi. Recentemente ero a cena con Chris Speed, il tenorsassofonista americano che ho avuto il piacere di coinvolgere in uno dei progetti discografici che seguiranno NINSHUBAR: ebbene, lui parlava con la stessa serenità e competenza di Sonny Rollins come del Grunge americano (lui è nativo di Seattle), di come il suo IPod ospitasse davvero di tutto…

    D - Vorrei concludere questa nostra bella chiacchierata invitandoti a commentare una frase estrapolata da un’intervista a Olivia Block: “C’è questo detto che vuole che i musicisti facciano la musica che vogliono ascoltare. Io credo invece di voler creare uno spazio segreto in cui poter collocare la mia esistenza e viverci dentro. Non faccio musica che poi vorrei ascoltare, faccio musica in cui vorrei entrare”.

    R - E davvero buffo e affascinante notare come chi fa musica spesso ne percepisca motivazioni e finalità in maniera diversa e allo stesso tempo complementare. Al contrario della brava Block io faccio musica che mi aiuti ad "uscire", ma niente fughe, sia chiaro: nessuna pavidità! Solo un grande desiderio di aperture prospettiche, di un continuo cangiare degli scenari sonici e conseguentemente esistenziali, dato che il suono è vita e che rinnovare la sua percezione significa rinfrescare di continuo la percezione che si ha di sé stessi nel mondo. Ora: è abbastanza banale sottolineare come prima di "uscire" si debba "entrare", nei propri "spazi segreti" o nei laboratori di cui parlavi tu, ci si debba calare completamente nella dimensione sonora che stiamo creando, per cui mi viene da dire che anch'io faccio musica in cui vorrei entrare, ma più gioco forza, dato che ci entro per poi utilizzarla come un razzo che mi catapulti fuori dall'atmosfera terrestre, alla ricerca di suoni sconosciuti! Non è affatto facile delineare i confini del perché si fa ciò che fa e questo, se vogliamo, ci riporta direttamente all'act of necessity di cui parlavamo prima, di come si suoni ciò che si è nel profondo. Esistono ovviamente forme di mediazione che ognuno di noi mette in atto nello snodare il proprio percorso musicale ma penso che ciò che ci caratterizza, la ghianda-daimon hillmaniana, pretenda sempre il proprio spazio e la legittima attenzione e, se ci pensi bene, questa è una gran cosa: per citare il grande John Cage non esiste una meta cui giungere, ognuno è sempre in prossimità della sua meta ed essi, nel nostro caso il musico e il proprio fine (sogno?) e(ste)tico, mutano in continuazione.